LONGFORM
Sperimentazioni cliniche:
la medicina di genere
farà la differenza
Titolo articolo
di Letizia Gabaglio
La medicina occidentale è stata costruita sul paradigma dell'uomo caucasico di età compresa tra i 30 e i 45 anni.
Le donne sono state a lungo sottorappresentate negli studi clinici, sottovalutando le differenze tra i due sessi – genetiche, cellulari, biochimiche e fisiologiche – che influenzano il metabolismo dei farmaci.
In Italia dal 2018 è iniziata un'inversione di rotta, e oggi almeno nel nostro paese le donne vengono coinvolte negli studi clinici al pari degli uomini.
Ma la strada è ancora lunga: occorre leggere gli studi con gli occhiali della medicina sesso-genere per migliorare efficacia, sicurezza e appropriatezza delle terapie.
L’equità di genere nella ricerca clinica
di Elisa Manacorda
Giornalista scientifica
In Italia il punto di svolta è arrivato poco più di cinque anni fa. Con la legge 3/2018 “Delega al Governo in materia di sperimentazione clinica di medicinali” il nostro paese si è impegnato affinché “la sperimentazione clinica dei medicinali sia svolta attraverso un'adeguata rappresentatività di genere”. Significa che, quando i ricercatori conducono una sperimentazione per testare la sicurezza e l’efficacia di una nuova molecola, devono (o meglio, dovrebbero) includere tra i volontari anche un'adeguata rappresentanza di donne.
L'impatto delle differenze sul metabolismo dei farmaci
Il perché di questa necessità deriva da quello che, grazie alla medicina di sesso-genere, oggi sappiamo sulle differenze tra uomini e donne quando si tratta di malattie e terapie farmacologiche, sia dal punto di vista fisiologico (sesso) sia dal punto di vista socioculturale (genere). Nella specie umana, tra maschi e femmine esistono infatti differenze a livello genetico, cellulare, biochimico e fisiologico. “Queste differenze sono identificabili già in utero”, racconta per esempio Flavia Franconi, farmacologa e tra le maggiori esperte a livello internazionale di medicina di sesso-genere. “E si tratta di differenze che”, continua l’esperta, “hanno sin da subito – e avranno successivamente, nella vita adulta – un grande ruolo nel metabolismo dei medicinali.
Per questo – aggiunge – andrebbero studiate a fondo e considerate quando si prescrivono le terapie farmacologiche”.
Già al terzo mese di vita intrauterina, per esempio, si possono notare delle differenze nel tessuto adiposo, tanto che alla nascita le bambine hanno più grasso sottocutaneo rispetto ai bambini e pesano meno. “Questa diversa composizione corporea porta a differenze nel modo in cui i farmaci si distribuiscono nell’organismo. Per esempio, nelle donne i farmaci lipofili tenderanno ad accumularsi nel tessuto adiposo per poi essere rilasciati successivamente”.
Anche la clearance di un farmaco, cioè l’escrezione nelle urine attraverso il sistema renale, è diversa tra gli individui di sesso femminile e in quelli di sesso maschile: i processi di filtrazione glomerulare sono infatti influenzati dal peso ma, anche dopo la sua correzione, la velocità di filtrazione è minore del 10% nelle donne rispetto agli uomini.
E ancora: lo stomaco dell’uomo ha un pH più basso rispetto alla donna, e questa maggiore acidità influisce sull’assorbimento del farmaco. La motilità del tubo gastrointestinale è più lenta nelle donne, e anche questo ha un impatto sul modo in cui il farmaco svolge la sua azione. Nel fegato, gli enzimi che metabolizzano gli antidepressivi sono in genere più numerosi nell’uomo, mentre quelli che metabolizzano le statine sono in media più presenti nella donna.
Donne a rischio maggiore di effetti collaterali
La differenza forse più eclatante riguarda però le reazioni avverse (ADR, o Adverse Drug Reactions), gli effetti indesiderati che possono verificarsi in seguito all’assunzione di un medicinale. Ebbene, alcuni studi dicono che le donne hanno un rischio maggiore (1,5-1,7 volte) di sviluppare ADR: in parte questo è dovuto a una particolare suscettibilità femminile, in parte a una maggiore abitudine all’assunzione di più farmaci contemporaneamente (politerapia), in parte per le fluttuazioni ormonali che caratterizzano la vita femminile dalla pubertà alla menopausa.
Nel 2001 un rapporto del General Accounting Office (GAO) degli Stati Uniti sottolineava come il 70% dei farmaci ritirati dal mercato tra il 1997 e il 2000 presentasse maggiori rischi per la salute delle donne.
È pur vero che studi molto recenti mettono in evidenza che le reazioni avverse gravi, che richiedono l’ospedalizzazione o causano morte, possano accadere più frequentemente nell’uomo. Tuttavia questo non sembra in contraddizione con quanto detto in precedenza, poiché le donne riferiscono molto di più le reazioni avverse lievi rispetto agli uomini: in questo senso, queste ultime presentano globalmente più reazioni avverse, sebbene meno gravi.
70%
dei farmaci ritirati negli USA
tra il 1997 e il 2000
si sono rivelati pericolosi
per le donne
1,7
volte in più di rischio
per le donne di sviluppare
una reazione avversa
ai farmaci (ADR)
(Fonte: Hendriksen, L.C., van der Linden, P.D., Lagro-Janssen, A.L.M. et al. Sex differences associated with adverse drug reactions resulting in hospital admissions. Biol Sex Differ 12, 34 (2021)
20%
le donne coinvolte
nelle fasi III
degli studi clinici
+2,8%
gli studi di fase I e II
condotti sulle donne
in Italia, nel 2015
(Fonte: Ministero della Salute, Piano per l'applicazione e la diffusione della Medicina di Genere)
È tempo che la diversità entri anche negli studi clinici
Ancora oggi molte popolazioni non sono adeguatamente rappresentate negli studi clinici e ciò esclude milioni di persone da terapie che potrebbero migliorare la loro salute o salvare le loro vite. Sull'importanza di una visione più inclusiva della ricerca clinica abbiamo intervistato Talita Honorato-Rzeszewics, Global Medical Grants Senior Manager di Pfizer, che da alcuni anni studia questi aspetti.
Talita, puoi sintetizzarci in poche parole il focus del tuo studio?
Ho approfondito il tema della diversità razziale dei partecipanti agli studi clinici sul cancro del colon-retto (CRC), basandomi su quelli registrati su ClinicalTrials.gov. Si è trattato del mio progetto finale (Progetto Capstone) dei miei studi post-laurea.
Perché ti sei soffermata su questa forma di cancro? Ci racconti la tua storia?
Questo progetto è nato per togliermi dalla testa che io, una professionista sanitaria, non abbia fatto del mio meglio per salvare mia madre dal suo CRC. Il CRC è una forma di cancro molto diffusa, che colpisce milioni di persone in tutto il mondo, con alte percentuali di mortalità e importanti lacune scientifiche e sanitarie da colmare. Per alcune persone, una diagnosi precoce e l'accesso a trattamenti efficaci possono portare a risultati positivi. Ma per donne come mia madre, una donna di colore, questi sono spesso insufficienti. Le donne di colore e altri gruppi minoritari hanno minori possibilità di sopravvivere a un cancro di questo tipo.
Cosa è emerso da questo studio? Puoi darci qualche dato?
La prognosi dopo la diagnosi di CRC dipende da molti fattori, dal tipo di cellule tumorali all'iter sanitario, o all'accesso alle cure. Un importante predittore della sopravvivenza al cancro è l'efficacia dei trattamenti, che viene valutata tramite gli studi clinici. I dati degli studi registrati tra il 2012 e il 2022 con la descrizione della distribuzione razziale/etnica hanno mostrato che i pazienti di colore rappresentavano meno del 5% dei partecipanti agli studi sul CRC. Nello stesso periodo, i pazienti di colore rappresentavano il 42% di coloro che erano affetti da CRC e avevano una delle più alte percentuali di mortalità. Con un tasso di partecipazione così basso, è difficile determinare l'efficacia o il profilo di sicurezza dei trattamenti per diversi gruppi fortemente colpiti dal CRC. Arruolando una popolazione diversificata negli studi clinici, stiamo aggiungendo non solo la componente della varianza genetica/biologica alla sperimentazione, ma anche la complessità degli aspetti sociali che impattano sulla salute e l'efficacia e la sicurezza dei farmaci.
Quali sono le tue aspettative per il futuro di una ricerca medica più inclusiva?
Quando guardo al futuro, prima guardo al passato. La ricerca medica, dal dopoguerra ad oggi, ha subito una regolamentazione sempre più stringente, a garanzia dei diritti di tutti i partecipanti. Ora è il momento di considerare l'inclusione come un altro pilastro delle scienze mediche e lavorare sulle diversità interspecifiche dei partecipanti all'interno degli studi clinici. Sono ottimista per il futuro perché stiamo vivendo un momento di discussioni ormai mature. Le strategie implementate stanno avendo successo e meno pazienti soffrono per la mancanza di dati sanitari che devono guidare decisioni mediche basate sull'evidenza.
Uomo, caucasico, 30–45 anni: un paradigma da rivedere
Proprio per evitare di somministrare alle donne farmaci non adeguatamente sperimentati su di loro – sostiene chi da tempo si occupa di medicina di sesso-genere – è necessario coinvolgere nelle sperimentazioni un numero adeguato di donne.
E non solo nelle ultime fasi degli studi clinici: addirittura, è il pensiero di alcuni studiosi e studiose, sarebbe importante considerare anche il sesso degli animali di laboratorio nelle fasi preliminari di un trial, la provenienza per sesso dei tessuti prelevati ai donatori e persino il sesso delle cellule quando le sperimentazioni sono condotte “in vitro”.
Eppure, per diverse ragioni, le donne sono state poco rappresentate negli studi clinici.
In generale, tutta la medicina occidentale è stata costruita sul paradigma maschile, usando come modello ideale un uomo caucasico normopeso e di età compresa tra i 30 e i 45 anni.
Il caso della talidomide
I motivi di questa esclusione risalgono a diversi decenni fa. Già nel 1977, per esempio, la Food and Drug Administration – l’ente regolatorio americano per la sicurezza dei farmaci – raccomandava di escludere le “donne potenzialmente fertili” dagli studi di Fase I e di Fase II.
Un approccio molto restrittivo che derivava, in primo luogo, dalla questione della talidomide, un farmaco largamente prescritto negli anni Cinquanta e Sessanta come sedativo, e alle donne in gravidanza come antiemetico per tenere sotto controllo le nausee.
La talidomide si rivelò teratogena, ovvero in grado di provocare anomalie nello sviluppo: migliaia delle donne che avevano assunto il farmaco durante i nove mesi diedero infatti alla luce bambini con malformazioni agli arti, tragedia i cui effetti sono visibili ancora oggi.
Da quel momento, il divieto di inclusione del sesso femminile nei trial è divenuto prassi, indipendentemente dalla capacità delle singole donne di restare incinte, dalla loro attività sessuale, dall'uso di contraccettivi, dall’ orientamento sessuale, dall'eventuale sterilità dei partner o anche dal desiderio di avere un figlio.
E senza contare che diverse pubblicazioni hanno poi indicato che la teratogenicità può essere trasmessa anche attraverso il liquido seminale maschile.
Il “caso talidomide” esplose all’inizio degli anni ‘60, e tenne banco su tutti i principali quotidiani.
Il farmaco fu sviluppato sul finire degli anni ‘50 da un’azienda tedesca, la Grünenthal, che lo presentò come una soluzione terapeutica dalle grandi potenzialità. Un anestetico efficace contro un gran numero di sintomi, tra cui soprattutto la nausea mattutina: uno dei disturbi più comuni legati allo stato di gravidanza. Ben presto emerse un collegamento inquietante. Si scoprì che i figli di madri che avevano fatto uso del talidomide presentavano un elevato rischio di sviluppare malformazioni permanenti, quali la focomelia: a venire colpiti furono oltre 20.000 bambini.
In Germania occidentale, Svezia e Gran Bretagna i prodotti con talidomide furono ritirati nel 1961.
In Italia, il farmaco venne ritirato nel settembre 1962.
Esclusione delle donne: fattori economici e organizzativi
Ad sottorappresentare le donne dalle sperimentazioni sono state però anche motivazioni di ordine economico e organizzativo: “Quando si selezionano i partecipanti a uno studio – spiega Franconi – è necessario ottenere un campione omogeneo sotto diversi punti di vista. Ma nel caso delle donne è più difficile, viste le variazioni del profilo ormonale dovute alle mestruazioni, all'uso di contraccettivi orali, alla menopausa o alla Terapia Ormonale Sostitutiva. Dal punto di vista farmacologico, insomma, “la” donna non esiste, ne esistono almeno quattro tipi diversi, e questo incide sulla progettazione degli studi clinici e sulla loro organizzazione”, continua Franconi.
“Separare i soggetti in due gruppi per sesso nelle analisi comporta una maggiore complessità – sottolinea infatti l’epidemiologo Vincenzo Guardabasso, già all’Unità operativa Ricerca sanitaria dell’Azienda Policlinico di Catania – perché quando si vogliono valutare separatamente gli effetti nei due gruppi è necessario arruolare un maggior numero di soggetti per mantenere la stessa potenza statistica. Questo aumento è necessario per aggiungere il punto di vista di sesso-genere”. Eppure, se lo studio è progettato secondo specifici criteri, non è necessario raddoppiare i soggetti tout-court. Basterebbe ad esempio, spiega Guardabasso, un modico incremento per aggiungere il fattore sesso a un’analisi della varianza fattoriale.
C’è infine una motivazione di ordine pratico che tiene lontane le donne dai trial. Partecipare a uno studio clinico comporta il fatto di recarsi al centro clinico con una certa frequenza, in luoghi magari lontani dalle abitazioni. Per una persona che ha sulle spalle la cura dei figli, dei genitori anziani, e in genere un lavoro meno solido e sicuro, partecipare a una sperimentazione può rappresentare un ostacolo insormontabile.
1993, la svolta della FDA
Dopo lunghe battaglie e pressioni da parte delle società scientifiche, delle associazioni di pazienti, delle organizzazioni non governative e del movimento femminista, nel 1993 la FDA ha preso posizione contro la prassi di escludere il sesso femminile nei trial (legata alla vicenda della talidomide), raccomandando l’inclusione delle donne nei trial “in numero appropriato per consentire l’individuazione di differenze di genere clinicamente significative nelle risposte ai farmaci”. Anche il resto del mondo, come detto, si è adeguato al nuovo indirizzo, almeno in teoria.
Nel 2005 l’ente regolatorio europeo EMA (allora EMEA) ha pubblicato le “Guideline Gender Considerations in the Conduct of Clinical Trials”, linee guida destinate proprio all’adeguata rappresentazione del sesso femminile nelle sperimentazioni cliniche, seguita poi nel 2012 da Health Canada, con le “Considerations for Inclusion of Women in Clinical Trials and Analysis of Data by Sex”.
In Italia l’Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA), nel 2011, ha istituito il “Gruppo di Lavoro su farmaci e genere” dedicato allo studio delle problematiche inerenti agli aspetti regolatori e farmacologici della “Medicina di Genere”.
E oltre alla Legge 3/2018, è recente (gennaio 2023) anche il documento pubblicato dall’Osservatorio dedicato alla Medicina di Genere dell’istituto Superiore di Sanità e relativo alle “Linee di indirizzo per l’applicazione della Medicina di Genere nella ricerca e negli studi preclinici e clinici”. Oggi infatti, almeno nel nostro paese, le donne vengono coinvolte negli studi clinici al pari degli uomini, soprattutto nelle fasi successive alla prima, quella su volontari sani che comunque raramente viene condotta in Italia.
1993 – la FDA raccomanda l’inclusione delle donne nei trial. È il primo cambio di passo a livello globale.
2005 – l’EMA pubblica le linee guida sulla partecipazione femminile nei trial
2011 – AIFA istituisce il Gruppo di Lavoro su farmaci e genere
2012 – Health Canada pubblica le Considerazioni sull'inclusione delle donne negli studi clinici e sull'analisi dei dati per sesso
2018 – Con la legge 3/2018, anche l’Italia si impegna a garantire rappresentatività di genere nei trial
2023 – l’Osservatorio dedicato alla Medicina di Genere dell’istituto Superiore di Sanità pubblica delle linee di indirizzo sulla medicina di genere
Tanta la strada ancora da fare
Ancora lontani dall’equità
Grandi passi avanti che tuttavia non hanno ancora trovato una piena applicazione nella pratica clinica: uno studio condotto nel 2021 da Jecca Steinberg della Northwestern Feinberg School of Medicine di Chicago, e pubblicato su JAMA (Analysis of Female Enrollment and Participant Sex by Burden of Disease in US Clinical Trials Between 2000 and 2020) notava infatti come il bias relativo al sesso sia ancora presente, almeno negli studi condotti negli USA: l’analisi di circa 20.000 studi clinici pubblicati dal 2000 al 2020 mostra come in oncologia, neurologia, immunologia e nefrologia continui ad esserci una bassa rappresentatività delle donne.
In Asia le cose non vanno diversamente: nel 2020, uno studio di Xurui Jin del Global Heath Research Center, Duke Kunshan University, in Cina, mostrava come su 740 studi cardiovascolari condotti tra il 2010 e il 2017, solo il 38,2% dei partecipanti fosse di sesso femminile, così come in altri trial relativi ad aritmia, malattia coronarica, sindrome coronarica acuta e insufficienza cardiaca.
A preoccupare, come si diceva, non è solo la mancanza di donne sin dalle prime fasi della sperimentazione, ma anche la disattenzione verso il sesso nelle sperimentazioni con modello animale, tessuti o linee cellulari, dalle quali proviene la maggior parte dei dati sui nuovi farmaci: circa l’80% di questi studi non clinici utilizza solo animali maschi e cellule di sesso maschile.
Grandi passi avanti che tuttavia non hanno ancora trovato una piena applicazione nella pratica clinica: uno studio condotto nel 2021 da Jecca Steinberg della Northwestern Feinberg School of Medicine di Chicago, e pubblicato su JAMA (Analysis of Female Enrollment and Participant Sex by Burden of Disease in US Clinical Trials Between 2000 and 2020) notava infatti come il bias relativo al sesso sia ancora presente, almeno negli studi condotti negli USA: l’analisi di circa 20.000 studi clinici pubblicati dal 2000 al 2020 mostra come in oncologia, neurologia, immunologia e nefrologia continui ad esserci una bassa rappresentatività delle donne.
In Asia le cose non vanno diversamente: nel 2020, uno studio di Xurui Jin del Global Heath Research Center, Duke Kunshan University, in Cina, mostrava come su 740 studi cardiovascolari condotti tra il 2010 e il 2017, solo il 38,2% dei partecipanti fosse di sesso femminile, così come in altri trial relativi ad aritmia, malattia coronarica, sindrome coronarica acuta e insufficienza cardiaca.
A preoccupare, come si diceva, non è solo la sottorappresentazione delle donne sin dalle prime fasi della sperimentazione, ma anche la disattenzione verso il sesso nelle sperimentazioni con modello animale, tessuti o linee cellulari, dalle quali proviene la maggior parte dei dati sui nuovi farmaci: circa l’80% di questi studi non clinici utilizza solo animali maschi e cellule di sesso maschile.
Un nuovo sguardo con gli occhiali sesso-genere
Ma i numeri non bastano.
Al di là delle percentuali di inclusione, infatti, è necessario fare uno sforzo ulteriore.
Che è quello di interpretare i risultati degli studi indossando “gli occhiali della medicina sesso-genere”, incorporando questo approccio lungo tutto il processo di ricerca.
La consapevolezza delle differenze (ma anche delle somiglianze) tra maschi e femmine può migliorare la prevenzione, l’efficacia, la sicurezza e l’appropriatezza dei trattamenti.
Bibliografia
GAO Performance and Accountability Report, 2001 (https://www.gao.gov/products/gao-02-428sp)
History of Women’s Participation in Clinical Research (https://orwh.od.nih.gov/toolkit/recruitment/history)
EMA - European Medicines Agency (https://www.ema.europa.eu/en/documents/scientific-guideline/ich-gender-considerations-conduct-clinical-trials-step-5_en.pdf)
Health Canada (https://www.canada.ca/en/health-canada/services/drugs-health-products/public-involvement-consultations/biologics-radiopharmaceuticals-genetic-therapies/considerations-inclusion-women-clinical-trials/considerations-inclusion-women-clinical-trials-analysis-data.html)
AIFA (https://www.aifa.gov.it/-/il-direttore-generale-guido-rasi-istituisce-gruppo-di-lavoro-su-farmaci-e-genere-)
Gazzetta Ufficiale (https://www.gazzettaufficiale.it/eli/id/2018/1/31/18G00019/sg)
Ministero della Salute (https://www.gazzettaufficiale.it/eli/id/2018/1/31/18G00019/sg)
JAMA Network (https://jamanetwork.com/journals/jamanetworkopen/fullarticle/2781192)
Jin X, Chandramouli C, Allocco B, Gong E, Lam CSP, Yan LL. Women's Participation in Cardiovascular Clinical Trials From 2010 to 2017. Circulation. 2020 Feb 18;141(7):540-548. doi: 10.1161/CIRCULATIONAHA.119.043594. Epub 2020 Feb 17. PMID: 32065763.
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