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Dal tabù alle prospettive di cronicità.
Cosa significa, oggi, affrontare la diagnosi di tumore al seno metastatico

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Farmaci mirati, anticorpi monoclonali e farmaco-coniugati, immunoterapie: sono le innovazioni terapeutiche che contribuiscono ad aumentare in modo significativo la sopravvivenza delle persone che convivono con un tumore al seno metastatico.
Oggi sempre più considerata una patologia cronica, con un’aspettativa di vita che può superare i dieci anni. 
Una vera e propria rivoluzione, che porta con sé nuove sfide e spinge a ripensare il sistema sanitario, i percorsi di cura e il supporto alle persone coinvolte: sono sempre di più i pazienti, donne e uomini, che chiedono non solo di sopravvivere, ma di poter continuare a vivere pienamente, con dignità, serenità e fiducia nel futuro.

Dal tabù alle prospettive di cronicità. 
Cosa significa, oggi, affrontare la diagnosi
di tumore al seno metastatico


di Tiziana Moriconi
Giornalista medico-scientifico

Basta digitare online “tumore al seno metastatico” per avere accesso a una miriade di informazioni, dati, storie. Non era così 10 anni fa: allora in Italia era una sorta di tabù, e di notizie e testimonianze se ne trovavano poche. Poi la ricerca ha fatto un balzo in avanti e con essa la sopravvivenza delle pazienti.
Ed eccoci nel 2025: di carcinoma mammario al IV stadio si parla sempre più come di una malattia cronica, sebbene siamo lontani dal poterlo assimilare a patologie come il diabete. Però aumentano i casi in cui la sopravvivenza supera i 10 anni dalla scoperta delle metastasi1, e ce ne sono altri – ancora rarissimi – in cui il tumore resta sotto controllo talmente a lungo che c’è chi comincia a pensare che possano essere definiti persino “guariti”. Una parola, questa, che fino a ieri era quasi estranea al mondo dell’oncologia, e considerata eresia se associata al termine “metastasi”. 
Eppure, negli USA è in corso uno studio, lo STOP-HER2 Trial2, che sta testando la possibilità di interrompere i trattamenti in alcuni casi selezionati.

L’aumento della sopravvivenza

Ma cosa vuol dire convivere, oggi, con il tumore al seno metastatico? Per rispondere, partiamo proprio dai dati sull’aumento della sopravvivenza. Per il sottotipo di tumore al seno più frequente – quello ormono-responsivo (HR+/HER2-) – la sopravvivenza globale mediana ha superato ormai i 5 anni sia all’interno degli studi clinici8 sia negli studi real world9. Vuol dire che metà delle pazienti valutate in questi studi vive più di questo tempo.


Anche nel tipo di tumore al seno metastatico HER2+, più aggressivo e fino a una dozzina di anni fa considerato a prognosi infausta, l’ingresso di nuove classi di farmaci ha permesso di estendere la durata mediana della vita oltre i 5 anni.10,11
Progressi, sebbene più modesti, sono stati fatti anche il tumore al seno “triplo negativo”, dove però non sono ancora stati osservati gli stessi miglioramenti sul fronte della sopravvivenza globale.

Una nuova era


“La rivoluzione è stata epocale per la maggior parte dei sottotipi tumorali, e ora siamo in attesa di vedere miglioramenti significativi anche per i tumori triplo-negativi. Il cambiamento è avvenuto prima per i tumori HER2+ grazie agli anticorpi monoclonali, e in seguito per i tumori ormono-responsivi. In questo caso le pazienti avevano già una aspettativa di vita di anni, ma l’arrivo di farmaci chiamati inibitori delle chinasi ciclino- dipendenti 4-6 (CDK 4-6i) l’ha drammaticamente aumentata, come ci mostra il confronto tra le curve di sopravvivenza prima e dopo la loro introduzione. E questo è stato raggiunto migliorando anche la qualità di vita, aspetto fondamentale e non secondario all'allungamento della vita.
Anche nelle pazienti portatrici di una mutazione germinale dei geni BRCA 1 e BRCA2 (cioè ereditata e presente fin dalla nascita), un’altra classe di farmaci chiamata inibitori di PARP sta dando risultati importanti in tutti i tumori al seno HER2 negativi, sempre preservando la qualità di vita. 


Continua ad esistere il problema della resistenza: prima o poi, nella maggior parte dei casi, il tumore evolve e trova il modo di bypassare i farmaci. Ma oggi abbiamo a disposizione moltissime molecole che agiscono con meccanismi differenti, e la ricerca farmacologica sta procedendo ad una velocità mai vista prima, per cui disponiamo rapidamente di nuove strategie. 

Lucia del Mastro
Professore Ordinario, Direttore della Clinica di Oncologia Medica dell’IRCCS Policlinico San Martino, Università di Genova

Questo è il messaggio che dobbiamo passare alle nostre pazienti fin dalla diagnosi, con molta onestà ma anche con sincero ottimismo: probabilmente il loro tumore a un certo punto riprenderà a crescere e bisognerà cambiare più volte la terapia; ma ne abbiamo tante, e intanto diamo il tempo alla ricerca di trovarne di nuove. 
La comunicazione è un aspetto importantissimo della presa in carico: si può ricevere la notizia che la malattia è in progressione e uscire dallo studio medico comunque fiduciosi, con la consapevolezza che la si sta affrontando nel modo migliore e sentendosi seguite. Anche questo significa qualità di vita per i pazienti.

Certo, non basta: penso che ci sia veramente tanto da fare, sia per garantire l'equità di accesso in tempi congrui ai nuovi trattamenti, sia per migliorare la qualità di vita dei pazienti”.

I punti chiave su cui agire, sottolineati dagli esperti, sono diversi. Tra i principali:

  1. Ripensare il sistema della regionalizzazione della Sanità.

  2. Disporre di Percorsi Diagnostico Terapeutici Assistenziali (PDTA) nazionali per la fase metastatica (oggi ne esistono solo per la fase precoce), costantemente aggiornati, differenziati per sottotipo tumorale.

  3. Disporre di indicatori affidabili che consentano di misurare oggettivamente la qualità della gestione e della presa in carico (oggi presenti solo per la fase precoce). Un esempio sono i tempi di accesso alla biopsia liquida, che sta assumendo sempre più importanza in questo setting di malattia.

  4. Assicurare la gestione multidisciplinare, con il coinvolgimento di tutte le figure specialistiche di volta in volta necessarie, che abbiano expertise in campo oncologico: dal neurochirurgo in caso di metastasi cerebrali, all’ortopedico per le lesioni ossee, allo psichiatra e psico-oncologo. Questo potrebbe avvenire attraverso le Reti Oncologiche Regionali, creando uno strumento per i consulti a distanza, con un'organizzazione strutturata e un DRG (Diagnosis Related Group, lo strumento con cui si definisce la remunerazione delle prestazioni ospedaliere) specifico, in modo da garantire la multidisciplinarietà anche negli ospedali che non hanno tutte le figure professionali al loro interno.

  5. Prevedere, all’interno delle Breast Unit, “percorsi dedicati” alle pazienti metastatiche, sia per la prenotazione degli esami strumentali programmabili (PET, TAC, ecc.), sia per la gestione delle complicanze e degli effetti collaterali dei trattamenti (quali, ad esempio, i problemi della sfera genito-urinaria-sessuale e della salute dell’osso).

  6. Implementare nella pratica clinica i Patient Support Outcome (PROs) per misurare l'impatto della gestione del carcinoma mammario metastatico sulla qualità di vita delle pazienti.

Contro lo stigma

Sono passati solo 20 anni dalla prima grande indagine sui bisogni psicosociali delle donne con un tumore al seno metastatico: succedeva negli Stati Uniti, era il 2005, e l’organizzazione di advocacy Living Beyond Breast Cancer (LBBC) pubblicava "Silent Voices", denunciando per la prima volta l’isolamento e la totale mancanza di consapevolezza (anche nel mondo medico) di cosa significasse vivere con la spada di Damocle del tumore metastatico. Una seconda grande indagine arrivò nel 2009,  The BRIDGE Survey, promossa da Pfizer. 
Con la prospettiva di nuove terapie all’orizzonte, l’interesse generale crebbe e ne seguirono altre. Poi, nel 2018, le prime raccomandazioni su come migliorare la qualità della vita di queste donne vennero pubblicate nel “Global Status of MBC Decade Report 2005-2015” da parte della ABC Global Alliance e della European School of Oncology (realizzato con il supporto di Pfizer). Il secondo “Global Decade Report (2015-2025)” sarà presentato il prossimo novembre a Lisbona, nel corso della ottava edizione della Advanced Breast Cancer International Consensus Conference (ABC 8).

Vivere, non sopravvivere 

Oggi iniziative come queste si moltiplicano: le donne con tumore al seno metastatico sono 
uscite dall’ombra mediatica e sociale, e affermano con forza che vogliono vivere, non sopravvivere. Merito soprattutto delle campagne di sensibilizzazione (come Voltati. Guarda. Ascolta, attiva dal 2017 al 2020) e di progetti ad hoc sul fronte dell’attività fisica, della nutrizione, della mindfulness, delle cure integrate, della sessualità (come “La voce dell’intimità - Sessualità e tumore al seno metastatico: parlarne si può”, in corso dal 2023). 

Gli aspetti psicologici della malattia metastatica

“Il tumore al seno metastatico ha un andamento peculiare, in cui si alternano intervalli liberi da malattia e ricadute. Le donne che ne sono colpite si trovano quindi a convivere con la paura costante della progressione di malattia: un disagio psicologico cui contribuisce anche la stanchezza dei continui trattamenti e dei loro effetti collaterali. Il nostro obiettivo, come clinici psicoterapeuti, è quello di mantenere il distress a un livello ‘accettabile’.
Come? Prima di tutto misurandone con accuratezza l'intensità con strumenti validati a livello internazionale, e con approfondimenti diagnostici quando notiamo una componente elevata di ansia o di depressione. Questi sono i due parametri più importanti perché, oltre a ridurre la qualità di vita, incidono sulla compliance ai trattamenti. Inoltre, poiché la malattia può slatentizzare pregressi disturbi psichici, occorre effettuare una accurata anamnesi psicologica.
Solo dopo una attenta diagnosi è quindi possibile programmare l’intervento, che deve basarsi sui protocolli con le maggiori evidenze scientifiche. Nel caso del carcinoma mammario metastatico, mi riferisco alla psicoterapia cognitivo-comportamentale, seguita dagli interventi psico-oncologici di gruppo e dai percorsi psico-educazionali. 

Angela Piattelli
Presidente della Società Italiana di Psico-Oncologia (SIPO)

Poiché la persona affronta periodi di cura medio/lunghi, l'intervento dello psicoterapeuta esperto in psico-oncologia è di norma di tipo supportivo-contenitivo, incentrato sul ‘qui ed ora’: sul portare la paziente a prefigurare uno stato mentale in cui c’è sì la malattia, ma c’è anche lei. Trovare e mantenere un equilibrio determina un adattamento psicologico e un patteggiamento con la malattia stessa, possibile nel momento in cui ci si rende conto che si ha un vantaggio grazie alla medicina e alla scienza.Ovviamente, la malattia che progredisce è considerata un fallimento e può aumentare lo stress legato alla paura di morire. Per questo è importante che lo psiconcologo faccia parte del team multidisciplinare e il suo ambulatorio sia nel reparto di Oncologia: un aspetto su cui sto lavorando molto a livello politico come Presidente SIPO. Se l’oncologo nota un cambiamento significativo nell'umore di una paziente, infatti, noi possiamo agire tempestivamente con un intervento di contenimento emotivo, che ha lo scopo di intercettare e validare le emozioni, per poi passare a un intervento di gestione della paura. La paura immobilizza, mentre è necessario portare la persona a ritrovare le strategie funzionali per trasformarla in nuova energia.

È molto importante che tutti gli psico-oncologi seguano protocolli diagnostico-terapeutici basati sulle evidenze scientifiche, validati e codificati: solo così possiamo garantire la stessa qualità di cura in tutti i centri oncologici”. 

Su mandato dell’Istituto Superiore di Sanità e in collaborazione con l’Istituto di Ricerche Farmacologiche Mario Negri di Milano, un panel di 10 esperti – tra cui rappresentanti di SIPO e associazioni di pazienti – sta lavorando in questi mesi alla stesura delle Raccomandazioni di buone pratiche clinico assistenziali in Psico-Oncologia. Di interventi psico-oncologici con evidenza scientifica si parlerà inoltre nel prossimo Congresso Nazionale SIPO, che si terrà presso l’Università della Calabria (Rende, 9-11 ottobre).

I dati (mancanti)

Per clinici e pazienti c’è anche un’altra questione importante, e cioè l’istituzione di uno strumento che permetta di conoscere con maggiore esattezza il reale numero delle pazienti che nel nostro Paese convivono con la malattia al IV stadio. Le stime di cui disponiamo oggi sono molto diverse: la prevalenza va da poco più di 30mila donne alle oltre 50mila. Queste ultime stime sono probabilmente più verosimili proprio per l’aumento della sopravvivenza mediana, e indicano che ci troviamo – e ci troveremo sempre più – ad affrontare un problema ingente dal punto di vista dell’organizzazione sanitaria. 

Il tumore al seno, infatti, rimane quello più diagnosticato in assoluto (in Italia quanto a livello mondiale) e la prima causa di decesso correlata al cancro nella popolazione femminile italiana, rappresentando il 31% delle morti oncologiche12.

I pazienti chiedono tempo di cura e presa in carico

“Come associazione di pazienti sosteniamo da sempre l’importanza dell’istituzione di un registro dei pazienti – donne ma anche uomini – con il tumore al seno metastatico. Uno strumento come l’ESMÉ-MBC Database in Francia13 e il SONABRE Registry nei Paesi Bassi14, che permetta di avere dati affidabili da utilizzare negli studi real world e per la programmazione sanitaria. Questo ci consentirebbe, per esempio, di avere informazioni sui percorsi reali dei pazienti in cui il tumore sviluppa metastasi dopo la diagnosi in stadio iniziale, che sono la maggior parte, e di conoscere i punti critici su cui intervenire. E di contribuire a rispondere in modo più rapido a una delle sfide poste dalla crescente disponibilità di farmaci, ossia l’ottimizzazione e la definizione della migliore sequenza delle strategie terapeutiche via via disponibili.

Nella nostra associazione seguiamo soprattutto le donne in progressione di malattia e con molte ricadute alle spalle, che hanno maggiore bisogno di sostegno. Ancora oggi, purtroppo, ci riportano un forte senso di abbandono, spesso dovuto alla percezione di mancanza di tempo da parte dei medici e di organizzazione negli ospedali. In breve, al fatto di non sentirsi presi in carico. 

Marina La Norcia
Presidente Noicisiamo - Mbc Italia Tumore al Seno Metastatico

Lo stesso senso di abbandono aveva spinto la giornalista Mimma Panaccione a fondare l’associazione Noicisiamo nel 2016, e sebbene da allora i miglioramenti terapeutici siano stati innegabilmente enormi, la mancanza di risorse economiche ed umane nella sanità pubblica pesa immensamente sulla qualità di vita dei più fragili. E, temiamo, anche sulla loro aspettativa di vita. 

Chi ha un tumore metastatico non ha il tempo per aspettare le liste di attesa di un esame, né le energie per cercare da solo a chi rivolgersi. Per questo riceviamo richieste di secondi consulti, di rassicurazioni, di informazioni sugli studi clinici. 

Si parla molto al giorno d'oggi di umanizzazione, e progressi ne sono stati fatti, ma non sempre i pazienti vengono coinvolti nelle decisioni sul loro percorso di cura o semplicemente messi al corrente di ciò che dovranno affrontare e delle tossicità che potranno sperimentare. Se si vuole pensare davvero alla qualità di vita dei pazienti, bisogna cominciare da qui”.

Grandi passi avanti che tuttavia non hanno ancora trovato una piena applicazione nella pratica clinica: uno studio condotto nel 2021 da Jecca Steinberg della Northwestern Feinberg School of Medicine di Chicago, e pubblicato su JAMA (Analysis of Female Enrollment and Participant Sex by Burden of Disease in US Clinical Trials Between 2000 and 2020) notava infatti come il bias relativo al sesso sia ancora presente, almeno negli studi condotti negli USA: l’analisi di circa 20.000 studi clinici pubblicati dal 2000 al 2020 mostra come in oncologia, neurologia, immunologia e nefrologia continui ad esserci una bassa rappresentatività delle donne.
In Asia le cose non vanno diversamente: nel 2020, uno studio di Xurui Jin del Global Heath Research Center, Duke Kunshan University, in Cina, mostrava come su 740 studi cardiovascolari condotti tra il 2010 e il 2017, solo il 38,2% dei partecipanti fosse di sesso femminile, così come in altri trial relativi ad aritmia, malattia coronarica, sindrome coronarica acuta e insufficienza cardiaca.
A preoccupare, come si diceva, non è solo la mancanza di donne sin dalle prime fasi della sperimentazione, ma anche la disattenzione verso il sesso nelle sperimentazioni con modello animale, tessuti o linee cellulari, dalle quali proviene la maggior parte dei dati sui nuovi farmaci: circa l’80% di questi studi non clinici utilizza solo animali maschi e cellule di sesso maschile.

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